25) Clark

“Clark” è Una miniserie di Jonas Åkerlund. Con Bill Skarsgård, Alicia Agneson, Vilhelm Blomgren, Sandra Ilar, Hanna Björn. Azione. Svezia. 2022

Recensione:

Il crimine non paga, recita il detto. Ma se solitamente la saggezza popolare si è dimostrata fonte di ottimi consigli e spunti, per scrivere le mie recensioni, nel caso della miniserie “Clark”, disponibile su Netflix dal 5 maggio, ho qualche difficoltà ad applicarla.

Manco a dirlo, non conoscevo le imprese del rapinatore Clark Olofsson, vera star del crimine in Svezia, capace di delinquere felicemente quanto impunemente per oltre trent’anni. E non sapevo nemmeno che la famigerata sindrome di Stoccolma dovesse il suo nome a un episodio a lui legato.

Ma andiamo con ordine, perché mai come in questo caso le apparenze ingannano e la verità è difficile da distinguere dalle menzogne. continua su

7) Landscapers – Un crimine quasi perfetto

“Landscapers – Un crimine quasi perfetto” è Una miniserie di Will Sharpe. Con Olivia Colman, David Thewlis, Kate O’Flynn, Dipo Ola, Daniel Rigby. Commedia nera, drammatico. Regno Unito, USA. 2021

Recensione:

Esiste davvero il fantomatico delitto perfetto? E l’assassino-tipo, le cui caratteristiche saltano subito all’occhio? I fatti di cronaca sembrerebbero dimostrare di no.

Se cinema e letteratura si sono sbizzarriti nell’immaginare delitti impossibili e assassini spietati, la realtà ci ha mostrato come spesso i crimini peggiori – e talvolta insoluti – vengano realizzati da persone che i vicini, dopo, definiscono come “normalissime e insospettabili”.

La miniserie “Landscapers – Un crimine quasi perfetto”, coproduzione Sky ed HBO, disponibile su Sky e NOW, è il racconto in quattro episodi di un duplice omicidio tenuto nascosto per anni e di una diabolica truffa al sistema pensionistico inglese messa in atto da una coppia di insospettabili, Susan (Colman) e Christopher (Thewlis) Edwards. continua su

34)Luna Park

“Luna Park” è una miniserie ideata da Isabella Aguilar. Con Simona Tabasco, Lia Grieco, Guglielmo Poggi, Edoardo Coen, Alessio Lapice, Giulio Corso, Tommaso Ragno, Milvia Marigliano, Mario Sgueglia. Drammatico. Italia. 2021-in produzione

Recensione:

La parola Luna Park rievoca in me felici ricordi, legati alla mia infanzia e adolescenza e alla mia famiglia. I miei “poveri” genitori erano costretti a fermarsi in qualsiasi fiera con giostre esistente, per soddisfare i capricci di quel figlio che mal sopportava, invece, i musei e le città d’arte.

Per me, Luna Park significava gioia, stupore, divertimento, magia. Una meravigliosa pausa da una realtà spesso noiosa e ripetitiva. Da teledipendente, invece, mi vengono in mente i pre-serali di Rai1 degli anni ‘90, condotti da personaggi del calibro di Pippo Baudo e Mara Venier.

Questa personale divagazione era necessaria per rendervi partecipe de mio sincero rammarico da attempato recensore nel dover associare, da oggi, a questa bella parola anche un senso di noia e inutilità. Sono queste le sensazioni dominanti, dopo aver visto i sei episodi della miniserie ideata e scritta da Isabella Aguilar.

Dispiace vestire nuovamente i panni del guastafeste, criticando senza remore un progetto Netflix, e per giunta italiano, ma mi è oggettivamente impossibile elogiare qualcosa dove non ho compreso la linea narrativa, l’evoluzione dei personaggi, il senso.

“Luna Park” è una serie priva di riferimenti di genere, indicazioni stilistiche, identità. Sei ore di ibrido pasticciato. Thriller, dramma, melò si mescolano in una sceneggiatura priva di mordente, che lascia lo spettatore freddo e distaccato. E questo nonostante una vera e propria montagna russa di colpi di scena e cambi di registro.

La ricostruzione storica, quanto meno, è attenta, e lo sforzo produttivo importante si vede (l’Italia degli anni ’60 rivive nei costumi e nelle scenografie). continua su

29) The Mosquito Coast

• “The Mosquito Coast” è una miniserie composta da 7 episodi disponibile dal 30 Aprile sulla piattaforma Apple + , diretta da Rupert Wyatt , scritta da Neil Cross e Tom Bissell , basato sull’omonimo romanzo di Paul Theroux
• Cast Artistico:
• Justin Theroux as Allie Fox
• Melissa George as Margot
• Logan Polish as Dina,
• Gabriel Bateman as Charlie
• Kimberly Elise as Jones
• James LeGros as Don Voorhees
• Ian Hart as Bill Lee
• Sinossi:
• Un uomo idealista, disgustato dalla corruzione della società, porta la sua famiglia in America Latina.
• Recensione:
Inizio questa mia recensione ammettendo pubblicamente di non aver mai letto il romanzo di Paul Theroux (1981) né tanto meno di aver visto l’adattamento cinematografico del 1986 di Peter Weir.
Un’ignoranza letteraria e cinematografica che non dovrebbe stupirvi, ma semmai rimarcare, ancora una volta, come la direttora Turilazzi continui nella sua missione impossibile di rieducazione culturale del sottoscritto.
Scevro da condizionamenti pregressi e/o pregiudizi mi sono approcciato con sincera neutralità e curiosità alla visione di tutti i sette episodi della miniserie cercando di capirne il senso e valore artistico.
Leggendo le recensioni, i giudizi sia sul romanzo che sul film , mi è apparso evidente come la miniserie Apple si sia rivelata ben lontana dall’idea e spirito originale immaginato dall’autore Paul Theroux.
“ The Mosquito Coast” ha rappresentato, incarnato il folle quanto testardo desiderio di ribellione, rifiuto radicale del protagonista Allie, , novello Don Chiosciotte, contro il modello capitalistico ed egoistico della società americana.
Una storia bizzarra, controversa, quanto potente che ha influenzato più di una generazione alla ricerca di modello alternativo di vita
“The Mosquito Coast” come miniserie però lascia nello spettatore un senso di incompiutezza narrativa, confusione strutturale ed approssimazione nella costruzione dei personaggi.
La prima stagione di “The Mosquito Coast” possiamo sintetizzarla come una caotica quanto spericolata fuga messa in atto dal bizzarro inventore Allie (Justin Theroux) trascinandosi dietro la sua famiglia decidendo di passare il confine messicano rischiando la morte in più di una circostanza tra sparatorie, inseguimenti o drammaticamente finendo disidratati attraversando lo sconfinato deserto
Allie e sua moglie Margot (la bellissima e brava Melissa George) nascondono un segreto, consapevoli che prima o poi questa ritirata vita nel sud della California si sarebbe conclusa.
Ciò nonostante, la fine della quiete familiare avviene in modo brusco e drammatico quando due agenti dell’Fbi hanno fatto partire un’imponente retata schierando uomini e mezzi come si dovessero arrestare pericolosi criminali.
Perché il governo vuole arrestare Allie e Margot? Quali segreti si portano dietro del loro passato. I due figli sono davvero loro?
Sono soltanto alcune delle numerose domande che lo spettatore inizia vanamente a porsi scontrandosi contro il “muro di gomma” degli sceneggiatori quasi felici nell’aver costruito una storia in cui il rimando delle risposte e l’opacità della verità appaiono i punti essenziali dello script.
Lo spettatore fatica a trovare una logicità narrativa e conseguenza creativa in un intreccio dove sono mescolati , tenuti insieme l’Fbi, una potente famiglia criminale messicana ed infine una misteriosa società.
Tutti accomunati dalla feroce volontà di far confessare ad Allie qualcosa del proprio passato.
Questo continuo rimandare, dire o non dire alla lunga appare fastidioso , irritate per lo spettatore illuso che prima o poi dovrà avere almeno qualche risposta e/o chiarimento.
La prima stagione di “The Mosquito Coast” risulta così come un lungo, prolisso quanto noioso prologo di quanto, probabilmente, sarà svelato nelle future stagioni.
Lo spettatore si impegna nella visione dei 7 episodi confidando di trovare risposte o quanto meno qualche passaggio chiarificatore od utile nel rendere plausibile una stagione tutta improntata alla fuga forsennata ed a tratti inverosimile.
Una scelta autoriale che consideriamo discutibile nella visione creativa quanto nella sostanza poiché rende quasi impossibile un pieno coinvolgimento emotivo con dei personaggi appena abbozzati e in particolar modo nel caso dei cattivi /inseguitori trattati alla stregua di figure caricaturali .
• “The Mosquito Coast” evita il completo fallimento artistico grazie alle toste e convincenti performance della già citata Melissa George e dei due giovani e bravi attori Logan Polish e Gabriel Bateman davvero credibili nel ruolo dei figli della coppia offrendo una diversa quanto suggestiva prospettiva su situazione tragicomica che mette in crisi le certezze dei due adolescenti.
• “The Mosquito Coast” è complessivamente deludente o se preferite negativamente indecifrabile rispetto alle grandi attese della viglia.
• Un prodotto ricco e curato sul piano scenografico ed ambientale non può bastare nell’evitare una bocciatura in altri campi.
• Fino a prova contraria, “The Mosquito Coast” è un occasione sprecata o nei migliori casi un potenziale mal sfruttato.

28) Halston

“Halston” è una miniserie Netflix composta da 5 episodi ideata da Ryan Murphy, diretta Daniel Minahan

Cast Artistico:

Ewan McGregor Halston
Rebecca Dayan Elsa Peretti

David Pittu
 Joe Eula

Krysta Rodriguez
 Liza Minnelli

Gian Franco Rodriguez
 Victor Hugo
Jason Kravits Carl Epstein

Bill Pullman
 David Mahoney
Kelly Bishop Eleanor Lambert
Vera Farmiga Adele

Sinossi:

Segue Halston mentre sfrutta il suo unico nome inventato in un impero mondiale della moda che è sinonimo di lusso, sesso, status e fama, definendo letteralmente l’era.

Recensione:

Mi rendo conto che rinnovare, rimarcare la mia personale ignoranza possa apparire fastidioso oltre che stucchevole.

Ma ancora una volta, caro lettore, dal mio berbero stato culturale devo partire nel tentativo di spiegarti la mia bocciatura su “Halston” come miniserie.

Quando la direttora mi ha dato l’incarico di vederlo, ho subito esclamato in modo sobrio quanto in perfetto stile british: Ma chi m…è 

Halston Frowick? 

Perché Netflix ha deciso di realizzare una miniserie su questo tipo scegliendo come protagonista il bravo quanto ormai agee Ewan McGregor? 

Ho visto tutti i 5 episodi resistendo alla tentazione dell’aiuto del computer (alias Wikipedia) imponendomi un comportamento serio e professionale.

5 episodi dopo e molte ore della mia vita quasi perse, non essendo ancora persuaso di quanto visto e dubbioso su quale fosse stata la vera molle autoriale che   ha spinto Ryan Murphy a realizzarla.

Ho chiesto anche ‘l’aiuto di casa ovvero interpellando mia madre ed un una cara amica se avessero mai sentito, visto, indossato un abito firmato da Halston (si è stato uno stilista è stato uno stilista statunitense assurto a fama internazionale negli anni ’70.)

Il loro silenzio assordante si è rivelato determinante nello scrivere queste considerazioni.

1)la miniserie “Halston” è un progetto rivolto più al pubblico americano rispetto a quello europeo, avendo quest’ultimo pochissima o nulla “percezione” del fenomeno Halston.

2)in questi anni la TV e la 7 Arte in generale hanno creato un vero e proprio sottogenere nella categoria Biopic, dando visibilità e risalto alle vite geniali quanto spericolate di grandi stilisti.

Alcune vite finite nel sangue hanno ispirato miniserie acclamate come “Omicidio Versace” e l’atteso “Gucci” con protagonista Lady Gaga.

Personalmente ho apprezzato il film “Saint Laurent” del 2014 e più recentemente i documentari su Valentino, Pierre Cardin e Ralph Lauren

Tutti progetti che hanno sicuramente colmato le mie mancanze offrendomi altresì da spettatore una prospettiva diversa, originale ed intimo su questi grandi stilisti.

3)ritornando invece ad “Halston”, si ha la sensazione di vedere un canovaccio narrativo, emotivo e storico piuttosto lineare quanto prevedibile e complessivamente noioso.

I primi quattro episodi sono stati scritti, messi in scena ed interpretati seguendo uno stile di racconto classico con lo scopo di raccontare le varie tappe dei successi professionali ed umani di Halston inserendo il tutto in cornice storica dalla fine degli anni sessanta fino a meta anni 80. 

Il ventennio 70-80 scandito dagli eccessi, le feste smodate a base di droga e sesso nel mitico Studio 54 e la tragica diffusione della piaga dell’Aids.

4)lo spettatore acerbo sull’Alta Moda, scopre come i cappelli abbiano rappresentato    l’inizio del successo per Halston avendo Jackie Kennedy come testimonial d’eccezione.

Halston dal quel incredibile successo prese il largo imponendo i suoi design e lineari, spesso realizzati in cashmere rappresentando insieme ai profumi una novità ed un marchio vincente. 

5)Osserviamo crescere giorno dopo giorno   la “corte dei miracoli “dello stilista.

La vita di Halston diviene sempre più dissoluta sessualmente e dipendente dalla droga, potendo contare inizialmente su pochi e fidati

Un’amica leale ed intima fu Liza Minnelli, collaboratori creativi furono. Elsa Peretti e Joe Eula.

6)nei primi quattro episodi sono gli attori diche li interpretano in modo magistrale, credibile e carismatico a dare forza e nerbo ad una storia, altrimenti impantanata nella recitazione imbolsita, piatta e umorale di McGregor.

7)si, avere letto bene, il più grande problema della miniserie è stato proprio Ewan McGregor.

L’abbiamo visto recitare esclusivamente in due modalità: con o senza sigaretta. 

Una performance sempre uguale, stiracchiata, a tratti imbarazzante per l’attore inglese.

Dopo averlo scoperto ed ammirato quasi 30 anni fa in “Trainspotting”, è stato artisticamente doloroso vederlo così nelle vesti di Halston.

8)eravamo pronti a chiedere conto e ragione al regista dell’ inutilità del progetto e della scelta suicida di McGregor.

 Quando nel quinto ed ultimo episodio si  ribalta almeno parzialmente il giudizio . Emergendo la vera anima del progetto e chiarendo l’urgenza narrativa e creativa di Ryan : restituire l’onore perduto alla stilista Halston, farlo decadere dalla “damnatio memoriae” che volontariamente lo stilista si autoinflisse al culmine della sua foga autodistruttiva.

Halston “cedette’ il proprio nome all’azienda illudendosi che tale privazione potesse essere compensata da un milione di dollari all’anno.

Un errore che lo stilista nella parte finale della sua vita sconterà amaramente come una sorte di legge di contrappasso.

Un artista privato del suo Nome è niente.

Per lo stilista Halston fu più doloroso piuttosto che accettare la diagnosi di Aids comunque tenuta segreta.

Il senso di perdita, colpa, stupidità e malinconica impotenza sono incarnati magnificamente da Ewan McGregor   finalmente libero da un ruolo rigido ed imbolsito trovando finalmente, da bravo attore quale, la giusta chiave attoriale oltre che umana nel mostrare l’inquietudine e soprattutto incarnare la disperazione dell’artista come fosse un novello Dorian Gray

In definitiva sarebbe stato sufficiente il quinto episodio per raccontare il dramma creativo/esistenziale del geniale Halston.

Un film od al massimo una mini serie da 2 episodi avrebbero permesso una fruizione più coinvolgente ed avvolgente.

Un grave errore autoriale che ha drasticamente condizionato. la bontà e funzionalità del progetto

Ryan per fare molto paradossalmente ha sbagliato troppo.

Armatevi di pazienza e caffè per gustarvi il senso e piacere di Halston.

27)Jupiter’s Legacy

“Jupiter’s Legacy” è una miniserie Netflix composta da 8 episodi ideata da Steven S. DeKnight e basata basata sull’omonimo fumetto di Mark Millar e Frank Quitely.
Cast Artistico:
• Josh Duhamel è Sheldon Sampson, il capo della squadra di supereroi
• Ben Daniels è Walter Sampson, il fratello maggiore di Sheldon
• Leslie Bibb è Grace Sampson, supereroina molto potente e moglie di Sheldon
• Elena Kampouris è Chloe Sampson, la figlia di Grace e Sheldon
• Andrew Horton è Brandon Sampson, il figlio di Grace e Sheldon
• Mike Wade è Fitz Small
• Matt Lanter è George Hutchen
• Tenika Davis è Petra Small, la figlia di Fitz
• Anna Akana è Raikou
• Tyler Mane è Blackstar

Sinossi:
Lo show segue le vicende della prima generazione di supereroi che hanno ricevuto i loro poteri nel 1930. Nel presente, però, sono i loro figli, anch’essi super dotati, a dover convivere con le vicende leggendarie dei loro genitori.

Recensione:
“Ad ognuno il proprio mestiere” si dice.
Dopo aver visto alcuni film o serie tv, il vostro cronista avrebbe voluto aggiungere “ non è scritto da nessuna parte che un network debba inseguire le mode”

Una volta il mondo dei fumetti sui supereroi era un esclusivo monopolio/sfida editoriale tra Dc Comics e Marvel Comics.
Poi i grandi studios (Fox e Disney) fiutando l’enorme affare si sono buttati nella realizzazione di film, intere saghe invadendo le sale con i vari Justice League e Avengers.
Amazon ha risposto con un discreto successo realizzando la serie “The Boys”
Poteva cosi la “povera” Netflix resistere al richiamo /tentazione? Ovviamente no, purtroppo.
Così è stato messo in cantiere Jupiter’s Legacy rivelandosi un errore produttivo /editoriale dettato dalla stessa presunzione che colpì il buon Icaro.
“Jupiter Legacy” si dimostra fin dai primi episodi un pasticcio narrativo che mescola insieme mitologia, la crisi economica del 29 e la decadenza morale degli Stati uniti d’oggi.
Un mix di storie e passaggi temporali che hanno reso complicata la visione allo spettatore incapace di trovargli un senso e soprattutto di trovare un coinvolgimento con i personaggi .

Jupiter’s Legacy (“l’eredità di Giove”) si dipana su linee temporali che si alternano sulla scena in modo confuso quanto dispersivo: l’America moderna e la Grande Depressione del 29
Lo spettatore è costretto nella difficile impresa d’ unire i pezzi di un script caotico, retorico e piuttosto retorico e ridondante nella messa in scena.
“Jupiter’s Legacy” appare come una forzosa via di mezzo tra gli Avangers e Justice League, non avendo l’appeal carismatico dei primi e la ricchezza visiva del secondo
Osserviamo nel presente quanto siano complicati i rapporti nella famiglia Sampson, nella quale il rigido e ormai stanco leader dell’Unione, Utopian e sua moglie, Lady Liberty (Leslie Bibb ), si scontrano quotidianamente con i figli : la ribelle Chloe e Brandon desideroso quanto vanamente di seguire le orme paterne
Sheldon Sampson è deluso dal comportamento dei suoi due figli, ritenuti inadeguati all’impegnativo ruolo e soprattutto all’altezza dei poteri che gli sono stati concessi.
L’anziano leader teme che i nuovi supereroi si possano allontanarsi dal Codice che è stato il faro, il perno dell’Unione fin dalla fondazione.
Ma chi ha scritto questo Codice? Dove si trova? Si chiede il disorientato spettatore.
Un codice continuamente evocato da Sheldon, mai una volta nell’arco degli otto episodi gli autori hanno la bontà di farlo apparire sulla scena.
La seconda linea narrativa è composta di flashback che descrivono la crisi della società americana dopo il Crollo dell’indice di Wall Street del 1929 che provoca tra l’altro il drammatico suicidio del patriarca Sampson e il successivo crollo psicotico di Sheldon distrutto da questo dolore.
Un crollo psicotico che si tramuta incomprensibilmente quanto improvvisamente in un ossessiva , folle ricerca di una verità da parte Sheldon da quando il fantasma del padre ha iniziato a tormentarlo.
Ciò nonostante Sheldon riesce a mettere su una squadra composta tra gli altri dal fratello, dal migliore amico e Grace all’epoca ambiziosa giornalista per raggiungere un luogo misterioso in mezzo al mare.
Un luogo misterioso che si svela essere un’ isola . Un portale che trascina il gruppo in una dimensione divina.
L’isola li ha resi Dei ma con sembianze umane e con le relative conflittualità e contraddizioni.
Ma per quale motivo Sheldon ed i suoi 5 compagni d’avventura sono stati ritenuti idonei a ricevere questi poteri?

Sfortunatamente anche in questo caso gli sceneggiatori deludono le legittime aspettative dello spettatore ripetendo lo schema del continuo rinvio.

Anche Walt/Brainwave (il machiavellico e bravo Ben Daniels ) fratello telepatico di Sheldon, George/Skyfox (lo vediamo protagonista sono nei flashback del 29) e gli altri fondatori dell’Unione hanno figli con cui coltivano un rapporto conflittuale.
“Jupiter’s Legacy” si snoda sul piano esistenziale/psicologico come un dramma familiare incardinato tra mitologia e senso etico del bene comune faticando a trovare un preciso e chiaro equilibrio.
La prima stagione di “Jupiter’s Legacy” lascia troppe domande inevase, dubbi trasmettendo un senso di incompiutezza narrativa e registica.
Il finale aperto e tragico fa presagire una seconda stagione in cui si spera vengano corretti le evidenti criticità, per sollevare dalla mediocrità il supereoirsmo targato Netflix

24) Di mamma ce n’è solo due

Avviso ai naviganti: Se siete convintamente single, zitelli acidi, sostenitori della famiglia tradizionale, bigotti , privi di qualsiasi desiderio di genitoriale, dovete assolutamente vedere questa nuova serie Netflix.
Avrete due opzioni: cambierete radicalmente approccio alla vita o butterete urlando la tv fuori dalla finestra.
La terza via è stata contemplata solamente per il sottoscritto: non fare più proposte alla direttora senza aver approfondito seriamente il materiale.
Sto parlando della serie messicana Di mamma ce n’è solo… Due! (titolo originale Madre sólo hay dos), che affronta il tema della maternità mescolando vari generi partendo da un classico topos narrativo: l’improvvido scambio di neonati in ospedale
La serie ruota attorno ad Ana e Mariana, due neomamme totalmente agli antipodi che si ritroveranno a dover condividere non solo la quotidianità ma anche le loro figlie. A prestare il volto alle due protagoniste sono Ludwika Paleta e Paulina Goto, star della Tv messicana.
La serie composta da 9 episodi, si dimostra godibile, leggera, ben recitata ( le due protagoniste sono brave, credibili e splendidamente complementari sul piano attoriale ed umano)) , ma con alcune criticità sul piano registico e passaggi a vuoti a livello di script.
Ana (Ludwika Paleta) è una donna in carriera , vive in una grande villa insieme al marito Juan Carlos, ai due figli adolescenti e alle numerose domestiche.
Ana è maniaca del controllo , autoritaria, pianifica nei minimi dettagli la sua vita e quella di chi le sta intorno.
L’unica cosa che non aveva previsto era di rimanere incinta superata la soglia dei 40 anni.
Mariana (Paulina Goto), invece, è una giovane donna che sogna di realizzare un’app innovativa sulla maternità. Ha però una vita sentimentale piuttosto confusa e contraddittoria. Passando dal fare una figlia Pablo, suo primo amore allo scoprirsi innamorata della sua cazzuta collega d’universitaria (Oka Giner) .
Ana e Mariana si “scontrano” causalmente nel reparto maternità , detestandosi a prima vista.
Ma “il destino” alias un’infermiera pasticciona ha in serbo altri progetti per le due neo mamme.
Quattro mesi dopo essere tornate a casa con le rispettive bambine, mentre Ana sta allevando la piccola Regina secondo le rigide regole della casa mentre Mariana cresce la sua Valentina in modo completamente rilassato e seguendo solo il proprio istinto, arriva con la tardiva e ripartoria telefonata dell’ospedale il più amaro dei “fulmini a ciel sereno”
E’un duro colpo per le due neomamme che hanno già sviluppato un attaccamento viscerale per le loro presunte figlie.
Il senso più intimo e profondo della maternità emerge subito come tema cardine dell’intera storia: la madre biologica ha più potere rispetto alla madre che ha cresciuto ed in questo caso tenuto tra le braccia fin dal primo vagito il proprio figlio?
Un tema sofferto e controverso che gli sceneggiatori hanno voluto “declinare” con linguaggio e stile da commedia garbata ed a tratti divertente volendo offrire una prospettiva nuova e originale
Con questa scelta autoriale iniziano le divertenti vicissitudini di Di mamma ce n’è solo…Due!: Ana, infatti, decide di proporre a Mariana di trasferirsi a casa sua, almeno fino a quando entrambe le piccole non saranno svezzate. Una convivenza forzata che metterà a confronto due modi completamente opposti di affrontare la maternità, ma che sarà anche il pretesto per la nascita di una straordinaria amicizia e di un’insolita famiglia allargata.
Una scelta coraggiosa quanto rischiosa che finisce per penalizzare la qualità complessiva e soprattutto di snaturare la mission narrativa e sociologica dello show.
L’eccessiva mescolanza di commedia e dramma inizialmente incuriosisce e diverte lo spettatore spaziando con efficace disinvoltura dalla genitorialità biologica e non, all’idea famiglia allargata, l’omosessualità e il tradimento.
Un’idea di racconto e rappresentazione della società messicana odierna che però mostra il “fiato corto” alla lunga, lasciando troppi passaggi appena accennati, personaggi banalizzati o buttati frettolosamente nella mischia senza con il solo fine di portare avanti una storia ormai ondivaga e dispersiva.
Lo spettatore ha la sensazione d’assistere da una parte ad una versione “ripulita” di una telenovela sudamericana e dall’altra una versione messicana di “Beautiful”
Di Di mamma ce n’è solo…Due! è dunque una visione gradevole, divertente, coraggiosa, ma con delle criticità strutturali ed un ritmo narrativo discontinuo negandogli la possibilità d’aspirare ad essere una serie davvero imperdibile per tutti.

23) Love & Anarchy

“Love and Anarchy” è una miniserie serie svedese composta da otto episodi , disponibile dal 4 Novembre su Netflix, scritta e diretta da Lisa Langseth
Cast:
• Ida Engvoll: Sofie Rydman
• Björn Mosten: Max Järvi
• Björn Kjellman: Ronny Johansson
• Gizem Erdogan: Denise Konar
• Reine Brynolfsson: Friedrich Jägerstedt
• Johannes Kuhnke: Johan Rydman
• Carla Sehn: Caroline Dahl

Sinossi:
Stoccolma, 2019. Sofie Rydman è un’ambiziosa consulente aziendale, madre di due figli e moglie frustrata di un regista pubblicitario che da tempo la trascura spingendola a soventi pratiche autoerotiche, la sua vita monotona ed estremamente ordinaria inizia a sgretolarsi quando viene assunta dalla casa editrice Lund & Lagerstedt per rimodernarla sul piano digitale e social. Una sera, rimasta sola in ufficio, si abbandona alla masturbazione davanti al computer venendo sorpresa dall’affascinante giovane informatico Max Järvi. Superata la paura che questi voglia ricattarla, la donna inizia con lui un inaspettato ed audace flirt nel corso del quale entrambi si sfidano a fare cose che contraddicono le norme sociali stabilite. Tali giochi, così come i sentimenti dei due, si fanno via via più seri man mano che le sfide, e le conseguenze che ne derivano, diventano più grandi e incontrollabili.

Recensione:
Se fino a qualche anno fa giudicavamo negativamente di relazioni tra uomini di mezz’età e giovani donne, immaginando come l’amore non fosse il collante del legame.
Allo stesso modo ci stupiamo nello scoprire come in molte donne tra i 40 e 50 anni intraprendano intense relazioni con giovani uomini. Queste donne, spesso divorziate o con matrimoni in crisi, si illudono che un giovane amore possa rappresentare una ripartenza della propria esistenza.
Infine l’amore tra colleghi di lavoro ancora oggi è considerato “un tabù”.
Alcune aziende addirittura lo “vietano” contrattualmente al momento dell’assunzione, sapendo bene quanto possa essere sottile il confine tra amore e molestia sessuale in ambito lavorativo
Stranamente “un amore”, “una sbandata” al femminile ci appare più giustificata, più sensata, quasi risarcitoria rispetto a quella maschile
Lungi da noi fare la morale né agli uomini né alle donne attratte da questa affascinante e giovane tentazione, ci sembrava però opportuno fare questa breve riflessione prima di parlarvi della miniserie svedese “Love and Anarchy”
Spesso la TV anticipa la moda , i cambiamenti culturali e sociali, o comunque li rende espliciti, chiari, visibili nella nostra società.
“Love and Anarchy”, a nostro modesto parere, affronta con il giusto tono ironico e linguaggio leggero le tematiche sopracitate rimodulate e riviste con la mentalità svedese.
“Love and Anarchy” non è infatti solamente il racconto della banale quanto inevitabile relazione tra il capo (donna) e l’assistente più giovane ( ragazzo), bensì nell’intento autoriale è di raccontare e mostrare come due anime così lontane e diverse anche per età possano ritrovarsi accomunate dal desiderio di rompere tabù, il tram tram lanciandosi in piccole quanto provocatorie sfide.
Sofie è una donna in carriera, ha un marito e due bei figli. Sembra avere una vita perfetta almeno sulla carta. Eppure fin dal primo episodio lo spettatore osserva meravigliato come la donna cerchi unna “gratificazione” o se preferite una sorta di sollievo masturbandosi vedendo film in porno chiusa in bagno.
Sofie mai avrebbe immaginato di ritrovarsi “invischiata” in un gioco di ruoli e successivamente infuocata relazione con il giovane Max, ma il destino o meglio una masturbazione di troppo li ha fatti “trovare”.
I primi tre episodi (Com’è cominciato tutto, Sorprendimi e Stream Us) sono quelli più divertenti, convincenti, brillanti sul piano narrativo , creativo e financo attoriale , raccontando da una parte le bizzarre tappe d’avvicinamento dei due protagonisti e dall’altra facendo vivere allo spettatore l’atmosfera ed il modus operandi di una casa editrice piuttosto radical e sofisticata ben incarnati dagli altri componenti del cast.
Uno su tutti merita una citazione: il personaggio di Reine Brynolfsson, serio e rigoroso responsabile dei testi, magnificamente impersonificato da Friedrich Jägerstedt

Lo spettatore ci prende gusto con i continui e provocatori rilanci tra Sofie e Max oltre a percepire la crescente attrazione sessuale tra i due. Un gioco di “ruolo” che rivela un significato più profondo per entrambi. I due superando ogni volta una sfida più improbabile , si liberano ogni di un peso, limite che li ha tenuti ancorati ad uno stile di vita non più compatibile con le loro vere esigenze.
Gli altri cinque episodi sono altresì godibili, frizzanti, coerenti con l’intreccio narrativo, ma più prevedibili nello sviluppo portando anche alla relazione sessuale ed innamoramento della coppia.
“Love and Anarchy” ci piace pensarlo come il declinare di amore in 2 fasi: la prima intellettuale , di spirito e una seconda fase invece fatta di carne, sesso e sentimento.
Ida Engvoll e Björn Mosten rappresentano una piacevole ed inaspettata sorpresa artistica come coppia . I due attori hanno dimostrato bravura e naturalezza nel calarsi nei rispettivi personaggi , dando prova di un sincera quanto efficace alchimia sulla scena anche nei passaggi più caldi dello script.
Sofie e Max agli occhi del pubblico appaiono come una coppia perfetta e nonostante tutto le differenze e difficoltà , non si può non tifare per un lieto fine seppure tarato sul modello della serie piuttosto caricato, ma mai volgare o eccessivo.
“Love and Anarchy” è la mini serie da vedere per chi crede che la felicità si possa raggiungere seguendo il proprio istinto prima ancora del cuore a scapito della castrante razionalità.

21) Omicidio a Easttown

“Omicidio a Easttown” è una serie diretta da Craig Zobel. Con Kate Winslet, Julianne Nicholson, Jean Smart, Angourie Rice, David Denman. Drammatico, poliziesco. USA. 2021

Recensione:

Non me ne vogliano il pubblico e i Soloni della critica, ma io neanche stavolta riesco ad allinearmi completamente all’euforia collettiva generata dalla miniserie in sette episodi “Omicidio a Easttown”, disponibile su Sky e NOW.

Un buon noir esistenziale sotto le mentite spoglie di un thriller, impreziosito, quello sì, dalla straordinaria quanto misurata interpretazione di Kate Winslet, che dimostra, contro le mode del momento, come mostrarsi “imperfetti”, fisicamente e non, possa risultare vincente.

La miniserie, però, è segnata negativamente da una sceneggiatura prevedibile e da una regia piuttosto monocorde, nonostante il tentativo di sovvertire il trend con il finale. Una visione lunga, lenta, a tratti noiosa e prolissa.

Per raggiungere la quadratura del cerchio sarebbero bastati la metà degli episodi, e invece lo sceneggiatore Brad Ingelsby si è lasciato prendere la mano, rallentando l’intreccio, e fiaccando, alla lunga, la resistenza e l’interesse dello spettatore.

“Omicidio a Easttown” diventa così una sorta di gara di resistenza televisiva, dove si fa di tutto per evitare i cali di tensione e i colpi di sonno per riuscire ad apprezzare il talento della Winslet, splendidamente calata nel ruolo di Mare Sheehan, una donna forte e imperfetta, che beve, fuma ed è segnata da profonde cicatrici dell’anima. continua su

18) Them

“Them” è una serie creata da Little Marvin. Con Deborah Ayorinde, Ashley Thomas, Alison Pill, Shahadi Wright Joseph, Melody Hurd, Ryan Kwanten. Horror. USA. 2021-in produzione

Sinossi:

Nel 1953, durante la cosiddetta Seconda grande migrazione, Henry e Lucky Emory decidono di trasferirsi dal North Carolina in un quartiere di soli bianchi di Los Angeles. La casa della famiglia, in una strada alberata apparentemente idilliaca, diventa un inferno nel momento in cui forze maligne, sia reali che soprannaturali, minacciano di distruggerli.

Recensione:

Avviso agli spettatori: se avete problemi di vicinato o qualche dubbio all’idea di cambiare città/quartiere sarebbe meglio per voi astenervi dal vedere “Them”, la nuova serie antologica disponibile su Prime Video.

Trasferirsi è tendenzialmente stressante di per sé, come potrà raccontarvi chi lo ha fatto una o più volte. Se poi a spostarsi è una famiglia di colore, in fuga dal passato e alla ricerca di un nuovo inizio, nell’America razzista e conservatrice degli anni ‘50… be’ le cose si complicano.

Ideata da Little Marvin, che è anche uno dei produttori esecutivi, la serie in dieci episodi riprende e rinnova il racconto di denuncia tanto caro agli Stati Uniti. E si inserisce nel solco di film come “Scappa – Get out” e “Noi” di Jordan Peele, che hanno usato il genere horror per parlare di discriminazioni e ingiustizie. continua su